Domande di un genitore di un figlio alla deriva

13 Set 2024 - Articoli, News (, , , )

Domande di un genitore di un figlio alla deriva

Ecco una lettera di un genitore che ci scuote: adulti, istituzioni e anche noi servizi educativi. Ci mette profondamente in discussione. Nostre solo le sottolineature…

Cosa sta accadendo ai nostri ragazzi? In questi giorni, non c’è famiglia o trasmissione televisiva dove la domanda non venga posta ma nessuno, nemmeno chi lavora con gli adolescenti più a rischio e segue l’evoluzione del fenomeno, è davvero in grado di dare una risposta.

I genitori sono spesso sul banco degli imputati, come se mancasse loro la capacità di ascoltare o interpretare i segnali del disagio. Eppure, posso personalmente assicurare che se all’inizio-inizio si tende a sottovalutare o a non vedere, poi però l’impegno della famiglia per il recupero del figlio diventa totalizzante. Al punto tale che la vita dei genitori subisce un cambiamento radicale, sacrificando tutto: lavoro, rapporti sociali… la famiglia stessa. Spesso neanche i fratelli capiscono il motivo per cui un padre o una madre si annullano per quel fiore sfortunato. A chi guarda dal di fuori potrà sembrare l’ennesima forma di de-responsabilizzazione, addirittura la causa stessa della discesa agli inferi. Ma non è così. La parabola del figliol prodigo è di Duemila anni fa e certi comportamenti ce li abbiamo scolpiti nel codice genetico.  

La mia esperienza personale mi ha insegnato che una risposta univoca non esiste. Però, nel percorso di guarigione di mio figlio, una cosa la sto osservando. La scomparsa di quelli che una volta chiamavamo i luoghi di aggregazione giovanile è sicuramente uno dei problemi. Si badi bene che non voglio gettare la croce sui “social”. In assenza della dimensione “fisica” dell’interazione, i “social” possono rappresentare l’ultima forma di ancoraggio alla vita. Ma sono un surrogato. Un aiuto temporaneo che, come le cure farmacologiche, deve servire a superare i momenti più difficili. A volte ho avuto la netta impressione che mio figlio si isolasse nei videogame per evitare di farsi del male o di farlo agli altri. Una specie di deserto digitale dove scappare per silenziare le voci interiori che lo tormentavano.

In questi ultimi tempi, mio figlio ha ricominciato a vivere quella che si potrebbe definire una vita “normale”. È sempre sotto cura farmacologica, ma il servizio che lo segue lo ha introdotto con non poche difficoltà in un gruppo di ragazzi e giovani adulti con problemi analoghi al suo. Sono bastati pochissimi incontri ed è successo il miracolo. Ha ripreso a fare sport insieme a loro, ha deciso di ritornare a scuola e, di sua iniziativa, ha deciso di limitare le ore che passa nel mondo dei giochi multiplayer. Questo gruppo è per me una sorta di moderno oratorio, dove i ragazzi in crisi trovano loro peer. Non è necessario che si auto-analizzino, per iniziare il percorso di guarigione basta la semplice socialità, il capire che non si è soli e non si è gli unici.

Il problema è che non esiste più nulla di simile sui nostri territori: né bar né oratori né panchine o muretti. Nelle nostre città, grandi o piccole che siano, ci sono solo i “boschi” o le piazze di spaccio dove gli adolescenti che si auto-considerano degli “scarti” possono trovare ragazzi come loro, che non li giudicano e non li evitano. Sono arrivato a credere che nell’adolescenza (protratta ormai fino ai 30 anni) le amicizie, la socialità fisica, il senso di “comunità” sono necessari come l’aria. Noi adulti, per quanti sforzi facciamo e per quanto amore dimostriamo, non possiamo sostituirci.Questo mi porta ad una considerazione. Le comunità che sono nate negli anni ’70 e ’80 per il recupero dei tossicodipendenti hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo eccezionale. Ma quella formula di successo va adattata e applicata alle nuove forme di disagio giovanile. Come? Innanzitutto, comprendendo che il confine tra disturbi psichiatrici, comportamenti disfunzionali e abuso di sostanze non ha più molto senso. E poi comprendendo che ciò che conta è la “comunità”, non il luogo dove essa si realizza. Ovviamente, in base alla gravità del problema, la comunità può concretizzarsi in un luogo recintato e lontano. Ma per giovani adolescenti che si procurano tagli, che si isolano nel virtuale o che iniziano a frequentare le sostanze l’ingresso in comunità non può comportare il sequestro del telefonino, la rescissione dei legami con la famiglia o la scuola … deve prendere un’altra forma. Certo, ci vuole un impegno enorme, bisogna sperimentare ed essere disponibili ad assumersi la responsabilità degli inevitabili errori che si commetteranno. In condizioni ben diverse e con risorse irrisorie, persone come don Mazzi non hanno voltato la faccia quando incrociavano giovani che si bucavano sulle panchine di Parco Lambro. Chiedersi “perché” un giovane vuole autodistruggersi, dimostra nobiltà d’animo e pietà. Ma non è necessario avere una risposta per agire.